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21/03/16

Gli Usa innescano la corsa al riarmo nucleare


Negli ultimi anni, e specialmente dallo scoppio della crisi ucraina, si è registrata una corsa al riarmo di entità tale da portare il personale del Bulletin of the Atomic Scientists a spostare la lancetta del cosiddetto ‘Doomsday Clock’ (‘orologio della apocalisse’), il cronometro simbolico che indica quanto manca alla mezzanotte della guerra nucleare, da 5 minuti a mezzanotte nel 2012 a 3 minuti a mezzanotte nel 2015.
La causa di ciò va indubbiamente ricercata nello straordinario attivismo di Washington. Nonostante il Presidente Barack Obama, insignito del Premio Nobel perla la Pace nel 2009, abbia reiteratamente espresso la necessità di elaborare un programma operativo di disarmo graduale scandito in diverse fasi, in realtà la sua amministrazione ha di fatto ripreso e sviluppato la linea politico-strategica inaugurata dal precedente inquilino della Casa Bianca. Nel 2002, l’allora Presidente George W. Bush annunciò il ritiro degli Usa dal Trattato Salt, sottoscritto il 26 maggio 1972 assieme ai sovietici con l’obiettivo di limitare le difese anti-missile. Nel 2008, lo stesso Bush varò la Strategic Defense Initiative (Sdi), che prevedeva la costituzione in Europa centro-orientale dell’Anti-Ballistic Missile (Abm), il cosiddetto “scudo” formato da batterie di armi anti-missile in Polonia e Repubblica Ceca, eretto ufficialmente a difesa dall’incombente minaccia nucleare iraniana sebbene in molti – a partire da Vladimir Putin – abbiano espresso l’opinione che fosse diretto contro la Federazione Russa. Una volta ultimato l’insediamento dell’Amministrazione Obama, il Pentagono ha dichiarato che il numero totale delle testate nucleari statunitensi ammontava a 5.113 unità, 2.468 (1.968 strategiche e 500 tattiche) delle quali erano schierate e operative, mentre le restanti 2.600 circa erano entrate a far parte della riserva. Dall’entrata in vigore dei Trattati Start, Washington ha cominciato a ridurre progressivamente le testate nucleari installate su missili balistici intercontinentali di terra, puntando con decisione sull’ammodernamento dei vettori marittimi e aerospaziali, a partire dai Trident 2, missili strategici a propellente solido dotati di sistemi di guida inerziali allo scopo di sfuggire ad eventuali missili intercettori, capaci di trasportare fino a 8 testate ciascuno. I Trident sono montati sui sottomarini classe Ohio, lunghi 170 metri e in grado di operare in profondità. Le testate rimanenti sono state collocate sui bombardieri B-52H e sui B-2 Spirit e sui missili Tomahawk. 
Attraverso il ‘Nuclear Posture Review’ del 2010, il Pentagono ha poi ribadito con forza la necessità di varare un robusto programma di ammodernamento delle armi nucleari, considerate imprescindibili per la strategia di difesa statunitense. Da allora, la pressione degli apparati militari è andata intensificandosi fino a spingere il Congresso ad approvare, verso la metà del 2014, lo stanziamento di oltre 200 miliardi di dollari come ‘acconto’ su una spesa totale calcolata in 355 miliardi di dollari in dieci anni, allo scopo di potenziare le forze nucleari statunitensi con altri 12 sottomarini da attacco (dal costo di 7 miliardi l’uno) armati ciascuno di 200 testate nucleari, 400 ulteriori missili balistici intercontinentali lanciabili da terra ed armabili con testate multiple indipendenti, nonché decine di bombardieri strategici (550 milioni l’uno) in grado di trasportare ben 20 testate nucleari ciascuno. Nel maggio 2015, il Dipartimento della Difesa ha autorizzato il lancio dalla California di un missile intercontinentale Minuteman 3, che ha colpito con una testata sperimentale un atollo del Pacifico situato a 8.000 km di distanza. Nei dintorni di Kansas City, è stato costruito un impianto di dimensioni maggiori rispetto a quelle del Pentagono, in grado di ospitare test sperimentali che, grazie ad avanzati sistemi tecnologici, non richiedono esplosioni sotterranee. L’edificio di Kansas City è parte integrante di un complesso in espansione per la fabbricazione di testate nucleari, composto da 8 impianti e laboratori in cui lavorano oltre 40.000 specialisti. A Los Alamos, nel New Mexico, è stata avviata la costruzione di un nuovo grande centro per la produzione di plutonio destinato alle testate nucleari, mentre a Oak Ridge, nel Tennessee, è in fase di realizzazione un altro impianto per la produzione di uranio arricchito ad uso militare. I lavori sono stati però fortemente rallentati dall’enorme lievitazione dei costi: la spesa per il progetto di Los Alamos è passato in 10 anni dai 660 milioni previsti a oltre 5,8 miliardi di dollari; quella di Oak Ridge da 6,5 a 19 miliardi. Nel complesso, l’amministrazione Obama ha presentato 57 progetti di aggiornamento di impianti nucleari militari, buona parte dei quali è stata approvata immediatamente dall’Ufficio Governativo di Contabilità. 
A fianco di ciò, Washington ha annunciato lo schieramento in Italia, Belgio, Olanda, Turchia e Germania delle nuove bombe all’idrogeno B61-12, dopo «aver investito decine di miliardi di dollari nella modernizzazione e ricostruzione dell’arsenale nucleare e degli impianti atomici statunitensi». Secondo le più recenti stime della Federation of Atomic Scientists (Fas), gli Stati Uniti mantengono complessivamente 180 bombe atomiche in Europa e Turchia: 70 in Italia (50 ad Aviano e 20 a Ghedi), 50 in Turchia, 60 equamente ripartite tra Germania, Belgio e Olanda. Sul ‘New York Times’ è apparsa una lunga e dettagliata descrizione delle caratteristiche di questa nuova arma nucleare, in grado di penetrare in profondità per distruggere i bunker dei centri di comando e altre strutture sotterranee del nemico. A differenza delle ormai obsolete B61-4, che si sganciano in verticale sull’obiettivo, le B61-12 possono essere lanciate a circa 100 km ed essere teleguidate sul bersaglio attraverso un sistema satellitare, e risultano pienamente compatibili non solo con il velivolo B2 Spirit, ma anche con gli altri bombardieri statunitensi come l’F-35, l’F-16 e il Tornado Pa-200. 
Questa arma, testata nel poligono di Tonopah in Nevada, offre inoltre la possibilità di adeguare la potenza dell’esplosione nucleare al tipo di obiettivo da colpire, dal momento che i suoi ideatori hanno pensato di approntarne differenti versioni che vanno da 0,3 kilotoni a 50 kilotoni (pari ad oltre tre volte la potenza della bomba sganciata su Hiroshima); la bomba con la potenza massima è in grado di radere al suolo un’intera città, mentre quella minima si adatta a distruggere un’area più limitata, provocando una radioattività maggiormente contenuta. 
La B61-12 è la prima di cinque nuovi tipi di testate atomiche che per volontà di Washington dovranno avere dimensioni ridotte, buona precisione e soprattutto la capacità di non essere individuabili dai radar nemici. Il costo totale del programma di ammodernamento, che comprende anche lo sviluppo di missili da crociera adatti a trasportare questi tipi di bombe, è stimato in circa un trilione di dollari diluiti in 30 anni – prendendo come riferimento il valore del dollaro al 31 agosto 2014. Le implicazioni sono enormi, come puntualmente evidenziato dal generale ed ex Capo del Comando Strategico degli Stati Uniti James Cartwright, secondo il quale: «la modernizzazione delle armi nucleari potrebbe influenzare profondamente il modo in cui i comandanti militari valutano i rischi derivanti dall’uso di armi nucleari […]. Armi nucleari di minore potenza e più precise aumentano la tentazione di usarle, perfino di usarle per primi invece che per rappresaglia». Caratteristiche inedite di grande rilievo come la precisione, la capacità di penetrazione nel sottosuolo e la flessibilità rendono la B61-12 un’arma nucleare che non si limita a rispondere alle necessità statunitensi in materia di deterrenza, ma che può effettivamente indurre chi ne dispone a pensare di usarla in determinati scenari di guerra. Di fatto, armi del genere abbassano la soglia nucleare, cioè elevano il tasso di probabilità di un attacco atomico.
Le posizioni critiche assunte da esponenti politici di Paesi quali Germania, Belgio, Lussemburgo, Olanda e Norvegia, che hanno richiesto con sempre maggior forza la rimozione delle testate nucleari statunitensi dal suolo europeo si sono scontrate con l’opposizione dell’Italia, che continua tuttora a sostenere le armi atomiche rappresentano un simbolo irrinunciabile dell’impegno militare statunitense in Europa e dell’architettura di difesa euro-atlantica. Così facendo l’Italia viola palesemente il Trattato di Non Proliferazione cui aderisce, che impegna ciascun Paese firmatario «a non ricevere armi nucleari, né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente». Eppure, con l’accordo della ‘Doppia Chiave’ del 1959, Washington e Roma hanno concordato la possibilità, vincolata all’assenso di entrambi i Governi, di mettere le bombe statunitensi stoccate in territorio italiano a disposizione dell’esercito locale; in base a questo accordo i piloti dell’aeronautica militare vengono regolarmente addestrati ed aggiornati da istruttori statunitensi. 
La frenetica attività statunitense ha con ogni probabilità, spinto la Corea del Nord, da sempre considerato ‘Stato canaglia” da Washington, a potenziare il proprio arsenale nucleare testando con successo – almeno secondo l’‘astuto leader’ Kim Jŏng-ŭn – una bomba all’idrogeno, nel quadro complessivo che vede una sempre più rapida corsa agli armamenti. Particolarmente frenetica si è rivelata l’attività di Israele, che continua a potenziare i propri vettori – come i missili Jericho – e a ricevere sottomarini di fabbricazione tedesca Dolphin, modificati per trasportare i missili balistici Popeye Turbo. Produce inoltre trizio, isotopo radioattivo dell’idrogeno utile per fabbricare armi nucleari di nuova generazione come le mini-nukes, da utilizzare negli scenari bellici più ristretti. L’Arabia Saudita, impegnata a fronteggiare la progressiva affermazione del nemico iraniano sottoposto per oltre un decennio a dure sanzioni a causa del suo programma atomico, non ha negato di essere sul punto di acquistare armi nucleari del Pakistan, di cui copre il 60% delle spese necessarie a sostenere il programma nucleare bellico. In totale, se alle forze nucleari a disposizione della Nato (circa 8.000 testate nucleari, di cui quasi 2.800 pronte al lancio) si sommano gli ordigni russi, cinesi, pakistani, indiani, israeliani e nordcoreani, il numero delle testate atomiche viene stimato in 16.300 unità, di cui 4.350 pronte al lancio.

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