
Recentemente, alcuni ufficiali in pensione facenti parte della Citizen Commission on Benghazi (Ccb), un gruppo di lavoro che si è prefissato lo scopo di far luce sull’oscura vicenda dell’attacco al consolato Usa di Bengasi dell’11 settembre 2012 (che costò la vita all’ambasciatore Christopher Stevens, a un suo assistente e a due guardie del corpo incaricate di proteggere il corpo diplomatico), hanno portato alla luce numerose prove che inchiodano Hillary Clinton alle sue schiaccianti responsabilità.
La Ccb racconta di aver raccolto la testimonianza del vice-ammiraglio Chuck Kubic, il quale ha rivelato che nel marzo del 2011 – e quindi subito dopo l’inizio dell’aggressione militare alla Libia – aveva organizzato un incontro tra gli emissari di Muhammar Gheddafi e il generale Carter Ham, che allora ricopriva l’incarico comandate in capo del Comando Africa (Africom). Kubic ha raccontato che al tavolo negoziale il generale Ham richiese ai propri interlocutori una prova utile ad appurare che stessero effettivamente trattando in qualità di rappresentanti della Jamahiriya Libica. Gli Stati Uniti chiesero quindi ai negoziatori libici di ordinare un’evacuazione del personale militare da Bengasi, ottenendo, nel giro di poche ore, il pronto ritiro delle truppe libiche dalla città cirenaica. Comprovata la buona fede dei propri interlocutori, il generale Ham ritenne del tutto attendibili le loro informazioni circa la disponibilità di Gheddafi a dimettersi a patto che venissero scongelati i suoi beni sottoposti a sanzione e che una forza militare internazionale si insediasse per impedire la presa del potere dei jihadisti. Acconsentì quindi a sottoscrivere un documento che sanciva una tregua di 72 ore per permettere ai funzionari della Jamahiriya Libica di implementare l’iter burocratico necessario a garantire una rapida e indolore uscita di scena di Gheddafi.
Non appena Ham ebbe finito di trasmettere il contenuto dei colloqui al Dipartimento di Stato, una telefonata del Segretario in persona sconfessò l’accordo che lo stesso Africom si era impegnato a sottoscrivere e ad onorare. Una dettagliata ricostruzione del ‘Washington Times’, basata su telefonate tra ufficiali della Difesa, un congressista del Partito Democratico e Saif Gheddafi (figlio di Muhammar), conferma tutto ciò, evidenziando che l’incontro organizzato da Chuck Kubic era un’iniziativa presa dal Pentagono in maniera indipendente dal Dipartimento di Stato, che era apparso molto più oltranzista dei militari riguardo alla questione libica. Le registrazioni dimostrano che fu l’ammiraglio Mike Mullen, allora Capo di Stato Maggiore congiunto, a conferire a Kubic l’incarico di sondare il terreno con esponenti del regime di Gheddafi, dopo aver appurato che i rapporti che la Cia e il Dipartimento di Stato avevano redatto per conto della Casa Bianca erano clamorosamente tendenziosi, esagerati e del tutto inadeguati a riflettere la realtà fattuale libica – si pensi alla bufala relativa ai 10.000 morti causati dai bombardamento ordinati da Gheddafi circolata nel febbraio 2011. La tesi di Mullen era solidamente supportata sia da Human Rights Watch, che per bocca del direttore esecutivo per il Medio Oriente Sarah Leah Whitson aveva dichiarato al giornale statunitense che le atrocità compiute fino a quel momento erano limitate e «del tutto insufficienti a far pensare ad un genocidio imminente», sia, successivamente, da Amnesty International, che in un report del settembre 2011 avrebbe rivelato che anche i ribelli si erano macchiati di crimini quali torture, esecuzioni sommarie, rapimenti di lavoratori stranieri a fini di riscatto, ecc. La stessa intelligence del Pentagono era stata in grado di dimostrare che Gheddafi aveva impartito alle forze armate l’ordine di evitare di colpire i civili allo scopo specifico di evitare interventi militari internazionali. Da ciò si evince che il Dipartimento di Stato guidato da Hillary Clinton cospirò assieme alla Cia, consegnando alla Casa Bianca informative parziali e destituite da qualsiasi fondamento al fine di spingere un recalcitrante Presidente Obama a decretare la discesa in campo a fianco di Francia e Gran Bretagna. Contro il parere del Pentagono, che aveva anche acceso i riflettori sulle possibili ripercussioni sulla stabilità areale di un intervento armato contro un regime che, tra le altre cose, era in grado di garantire un’occupazione a circa 2 milioni di lavoratori stranieri.
I reiterati tentativi di dissimulare il ruolo centrale giocato dell’ex first lady e più in generale dell’Amministrazione Obama sono miseramente falliti di fronte alle dichiarazioni dell’ex agente della Cia Clare Lopez, la quale ha spiegato che: «Hillary Clinton era interessata a rovesciare violentemente Gheddafi, pur sapendo che collocandosi in questa posizione avrebbero dato manforte ai terroristi di al-Qaeda già impegnati nella lotta contro quello stesso regime che aveva collaborato per anni con gli Stati Uniti per tenere sotto controllo le cellule fondamentaliste locali. Da mesi, infatti, Qatar ed Emirati Arabi Uniti stavano finanziando l’acquisto di armamenti pesanti da inviare ai guerriglieri islamisti in Libia sotto la supervisione Usa/Nato».
Le ragioni di questa spiazzante decisione sono quasi sicuramente legate alla necessità Usa di porre fine ai pericolosi progetti che Gheddafi aveva in cantiere e che sarebbero potuti in qualche modo sopravvivere alla sua uscita di scena ‘pacifica’. La Banca Centrale, che non aderiva al sistema della Bank of International Settlements di Basilea, era mantenuta sotto il controllo dello Stato, emettendo moneta a seconda delle necessità nazionali ed erogando prestiti senza interesse per finanziare la ristrutturazione o la costruzione ex novo di infrastrutture decisamente avveniristiche per lo scenario africano, come il complesso sistema di irrigazione che consente di pompare le acque fossili dalla ricca falda nubiana per canalizzarle verso le aree agricole situate a Nord. Per di più, Gheddafi aveva già lanciato la proposta, approvata dall’allora direttore del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn – poi silurato – di creare una moneta comune africana, il dinaro d’oro, che permettesse ai Paesi del ‘continente nero’ di espletare il commercio aggirando il dollaro e il franco francese.
Grazie ai lauti introiti petroliferi – garantiti da contratti individuati come «quelli che, su scala mondiale, stabilivano i termini più duri per le compagnie petrolifere» dall’ex presidente della ConocoPhillips in Libia Bob Fryklund – lo Stato libico era riuscito non solo ad immagazzinare ben 144 tonnellate di riserve auree, ma anche ad accumulare una ragguardevole mole di fondi sovrani per la cui gestione era stata appositamente fondata la Libian Investment Authority (Lia). Nel 2011, il patrimonio gestito dalla Lia ammontava a 70 miliardi di dollari, a fronte dei 40 di cui disponeva nel 2006. Sommando questo denaro ai fondi detenuti dalla Banca Centrale Libica e da altri organismi statali, Tripoli era arrivata a disporre nel 2011 di circa 150 miliardi di dollari, tramite i quali erano stati effettuati investimenti in numerosissime società disseminate in tutto il mondo. Con i profitti garantiti dagli investimenti della Lia, la Libia aveva avuto modo di gettare le basi per la realizzazione di opere di pubblico interesse, il potenziamento dell’apparato industriale e la creazione di tre nuovi istituti finanziari patrocinati dall’Unione Africana: la Banca Centrale Africana con sede in Nigeria, il Fondo Monetario Africano con sede in Camerun e la Banca Africana di Investimento con sede a Tripoli. Questi progetti rispondevano all’esigenza di garantire autonomia finanziaria al ‘continente nero’ sottraendolo al controllo di quegli istituti transnazionali – come Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale – i cui meccanismi garantiscono l’esposizione delle nazioni africane al capestro debitorio. I fondi sovrani libici si erano rivelati fondamentali anche per la realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Regional African Satellite Communications Organization (Rascom), entrato in orbita nell’estate del 2010 allo scopo di consentire ai Paesi africani di alleggerire la propria dipendenza dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.
Il fiume di denaro in entrata ha indubbiamente seminato discordia all’interno del governo libico e alimentato fenomeni di corruzione, su cui gli Usa hanno fatto leva per capitalizzare i loro obiettivi strategici. Nel gennaio 2011, agenti della Cia avvicinarono l’alto funzionario statale Mohammed Layas, il quale indicò i conti correnti di banche statunitensi in cui erano depositati 32 miliardi di dollari della Lia. Il successivo 28 febbraio, il Dipartimento del Tesoro congelò questi fondi con l’assicurazione di sbloccarli «a beneficio del popolo libico» in un futuro non precisato. Pochi giorni dopo, l’Unione Europea si avvalse della ‘consulenza’ di altri funzionari della Jamahiriya per individuare e congelare altri 45 miliardi di euro di fondi libici. Subito dopo l’intervento della Nato, i ribelli istituirono la Central Bank of Libya, una Banca Centrale alternativa dotata di uno statuto allineato a quello delle Banche Centrali occidentali e incaricata, con il ‘supporto’ di grandi banche come Goldman Sachs (che un paio d’anni prima aveva comunicato a Gheddafi di aver registrato perdite del 98% del capitale libico affidatole, pari a 1,3 miliardi di dollari), di gestire i fondi ricavati dalle esportazioni petrolifere. La Central Bank of Libya decretava quindi l’affossamento dell’idea gheddafiana del dinaro d’oro, autentica spina nel fianco per il sistema monetario vigente – come dimostrato dalla pubblicazione delle e-mail segrete di Hillary Clinton. Come ha osservato l’analista finanziario Robert Wenzel: «il fatto che in piena belligeranza il Consiglio Nazionale di Transizione libico abbia pensato di dar vita a una Banca Centrale alternativa a quella creata da Gheddafi indica che i ribelli non sono dei semplici poveracci, ma agiscono dietro peculiari e sofisticate influenze esterne. Mai avevo visto una Banca Centrale essere formata in pochi giorni nel bel mezzo di un’insurrezione».
La stessa agente Cia Clare Lopez ha tuttavia rivelato che alcuni esponenti del governo degli Emirati giunti in Libia durante le prime fasi della guerra civile avevano scoperto che circa metà del carico di armi da un miliardo di dollari che avevano acquistato per conto dei ribelli era stato rivenduto alle forze leali a Gheddafi da Mustafa Abdul Jalil, massimo rappresentante della Fratellanza Musulmana all’interno del Comitato Nazionale di Transizione libico. Per coprire questo traffico, Jalil arrivò successivamente a organizzare l’assassinio del generale Abdel Fattah Younis, l’ex ministro dell’Interno di Gheddafi passato tra le fila dei ribelli che aveva iniziato a raccogliere indizi circa le manovre occulte di Jalil. L’esecutore materiale dell’omicidio fu Mohamed Abu Khattala, il jihadista identificato dagli Usa come capo del commando che l’11 settembre 2012 sferrò l’attacco alla sede diplomatica statunitense.
Islamisti come Abu Khattala, Abu Sufyan Ibrahim Bin Qumu, Hakim Abdel Belhaj erano stati scarcerati da Gheddafi su esplicita richiesta statunitense, per essere successivamente contattati dai servizi segreti qatarioti ed emiratini affinché organizzassero una rivolta anti-governativa. Arruolarono quindi i loro vecchi compagni di lotta – alcuni dei quali avevano persino combattuto contro i sovietici in Afghanistan – assieme a criminali comuni e soldati di ventura provenienti da tutto l’universo sunnita, al fine di creare gruppi armati in grado di sostenere scontri a fuoco con le forze regolari. Secondo quanto rivelato dal ‘New York Times’, dal momento che le monarchie del Golfo Persico incaricate di armare queste milizie stavano inviando le consegne solo ed esclusivamente a gruppi della galassia ribelle debitamente selezionati, la Clinton si vide costretta a provvedere al rifornimento di tutte le altre bande paramilitari.
Il magistrato Andrew Napolitano ha preso spunto da questo impianto accusatorio per dichiararsi convinto che le armi che il Qatar inviava a specifici gruppi ribelli fossero state vendute dagli stessi Usa nell’ambito di un’operazione messa in piedi proprio da Hillary Clinton che, interpellata dal Senato che indagava sui fatti dell’11 settembre 2012, avrebbe mentito spudoratamente in merito a questa faccenda. Le partite di armi dirette ai ribelli libici erano composte da fucili mitragliatori, missili anti-carro e lanciarazzi di fabbricazione est-europea della cui consegna si occupavano società statunitensi alle dipendenze del Dipartimento di Stato. Marc Turi, titolare di una delle imprese incaricate del trasferimento delle armi, ha rivelato che «quando il materiale atterrava in Libia, metà rimaneva in loco e metà ripartiva immediatamente per ricomparire tempo dopo in Siria». Lo stesso Turi, arrestato per traffico d’armi, ha accusato il Presidente Obama di averlo «incriminato per proteggere il ruolo centrale svolto dalla Clinton». Ma non è tutto; nella scena principale di un recente film d’azione girato dal regista Michael Bay che ricostruisce l’attacco jihadista al consolato di Bengasi si vede un gruppo di marines di stanza presso la base Usa di Sigonella ricevere l’ordine via radio di astenersi dall’intervenire a supporto dei contractor che stavano difendendo l’incolumità dell’ambasciatore Stevens, perché testimoni scomodi del traffico di armi messo in piedi dal Dipartimento di Stato che aveva creato le condizioni per il disastro. La secca smentita dell’ex capostazione della Cia di Bengasi non ha tuttavia dissipato i forti dubbi che aleggiano sull’intera vicenda, con particolare riferimento alla totale mancanza di motivazioni plausibili in grado di spiegare l’approccio passivo – o meglio inerte – dei responsabili collocati in cima alla catena di comando. Nodi cruciali che nemmeno la Clinton è stata in grado di sciogliere di fronte alla commissione d’inchiesta del Senato, e che hanno probabilmente concorso ad indurre Barack Obama, rieletto due mesi dopo i fatti di Bengasi, a non riconfermare l’ex first lady al Dipartimento di Stato.
Riunendo al proprio interno influenti protagonisti della finanza come Goldman Sachs e George Soros ed ideologi della ‘guerra infinita’ come il neoconservatore Robert Kagan, il gruppo di potere che sostiene attualmente la candidatura di Hillary Clinton ha alle spalle una rodata esperienza nell’appoggiare e foraggiare gli interventi – militari e non – statunitensi in giro per il mondo – Goldman Sachs ha addirittura assunto Anders Fogh Rasmussen per l’ottimo lavoro svolto in qualità di segretario generale della Nato – conformemente a una visione delle relazioni internazionali che pone la conservazione del primato geopolitico statunitense in cima alla scala delle priorità strategiche, da perseguire anche a costo di sacrificare gli interessi europei, indissolubilmente legati alla stabilizzazione di aree cruciali come il Nord Africa e il Medio Oriente nel quadro di un rapporto di stretta collaborazione con la Russia.
Il disastro politico, strategico, economico e sociale – in grado di mietere più vittime della guerra stessa – che ha investito la Libia consegnandola ai guerriglieri dello ‘Stato Islamico’ è la conseguenza diretta dell’intervento armato del 2011 voluto – tra gli altri – dall’ex first lady; circostanza che ha indotto il giudice Napolitano ad esortare i cittadini statunitensi ad attivarsi per «impedire che Hillary Clinton, levatrice del caos e pubblica mentitrice, diventi il prossimo Presidente».
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