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26/03/16

Usa, un'economia di guerra



Verso la fine degli anni ’30, l’economia statunitense subiva ancora gli effetti disastrosi della crisi scoppiata nel 1929. Il New Deal varato dal presidente Franklin Delano Roosevelt, nel cui ambito la spesa pubblica crebbe dai 10 miliardi di dollari del 1929 agli oltre 17 nel 1939, non aveva infatti evitato un fragoroso crollo del Pil, che nello stesso periodo si ridusse da 104 a 91 miliardi di dollari, né impedito al tasso di disoccupazione di passare dal 3 al 17%. La situazione cominciò a mutare con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, dapprima impegnando il sistema industriale Usa a sfornare un numero crescente di armamenti destinati a Gran Bretagna e Francia, e successivamente, con l’ingresso degli Stati Uniti innescato da Pearl Harbor, determinando la trasformazione della macchina produttiva nazionale in una vera e propria economia di guerra. Alle aziende storicamente ancorate al settore bellico si unirono imprese civili come la General Motors, le quali si videro costrette ad inserire sempre più lavoratori nelle catene di montaggio per soddisfare l’insaziabile domanda di navi da guerra e missili di Washington. Il che consentì al governo di conseguire il molteplice risultato di stimolare la ripresa industriale (che aumentò del 50%), far crescere il Pil (che raddoppiò), imprimere una forte spinta occupazionale al sistema economico (il tasso di disoccupazione crollò nell’arco di pochi mesi) e di acquisire un’invidiabile potenza militare. L’aumento della spesa pubblica per sostenere il riarmo riuscì quindi a trainare la crescita economica del Paese, anche perché generalmente i fondi stanziati a favore della difesa tendono a tradursi in finanziamenti per ricerca e sviluppo nei campi strategici dell’alta tecnologia, che ricadono a pioggia su tutto il comparto produttivo. Riflettendo su questo tema, l’economista Tyler Cowen ha scritto sulle pagine del ‘New York Times’ che: «anche se può sembrare contro-intuitivo, il mantenimento di un clima di pace generalizzata può rendere meno urgente, e quindi meno probabile, il raggiungimento di alti tassi di crescita economica. Il che non significa che la guerra migliora l’andamento dell’economia, perché naturalmente il conflitto genera morte e distruzione. L’argomento è anche diverso dalla tesi keynesiana secondo cui la preparazione della guerra fa aumentare la spesa pubblica e mette le persone al lavoro. Piuttosto, la possibilità stessa di una guerra aumenta il livello di attenzione dei governi, spingendoli ad agire correttamente riguardo ad alcune decisioni fondamentali – come investire nella scienza o semplicemente liberalizzare l’economia. A livello delle singole nazioni, questa attenzione finisce per migliorare le prospettive a più lungo termine […]. Può apparire ripugnante la ricerca un aspetto positivo della guerra, ma uno sguardo alla storia americana suggerisce che non possiamo respingere l’idea così facilmente. Innovazioni fondamentali come l’energia nucleare, il computer e l’aviazione moderna sono state tutte spinte da un governo americano desideroso di sconfiggere le potenze dell’Asse o, più tardi, di vincere la Guerra Fredda. Internet è stato inizialmente progettato per aiutare questo Paese a reggere un eventuale conflitto nucleare, e la Silicon Valley deve le sue origini alle forniture militari, non alle start-up imprenditoriali di oggi. Il lancio sovietico del satellite Sputnik ha stimolato l’interesse americano nel campo della scienza e della tecnologia, a beneficio della conseguente crescita economica […]. La guerra determina automaticamente un clima di urgenza che porta il sistema-Paese ad ottenere risultati in tempi molto ristretti. Il ‘progetto Manhattan’, ad esempio, ha richiesto appena sei anni per produrre una bomba atomica funzionale, partendo praticamente dal niente, e al suo apice ha consumato lo 0,4% della produzione economica americana. In questi giorni è difficile immaginare un risultato rapido e decisivo comparabile a quello […]. Il vivere in un mondo pacifico caratterizzato da una crescita del PIL del 2% annuo porta con sé alcuni grandi vantaggi che non si ottengono con una crescita del 4% e molti più morti in guerra. La vera domanda è se possiamo fare di meglio, e se la recente diffusione della pace è una semplice bolla temporanea che aspetta solo di essere fatta scoppiare». Per rispondere a questa domanda è bene prestare attenzione al susseguirsi degli eventi a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

L’abnorme sviluppo del settore manifatturiero Usa verificatosi tra il 1941 e il 1945 aveva quasi azzerato la disoccupazione, ma aveva anche beneficiato dell’ineguaglia­bile stimolo economico rappresentato dalla guerra, il cui termine portò i dirigenti statunitensi a ritenere che il limitato mercato interno non avrebbe mai potuto assorbire le merci sfornate dall’enorme apparato produttivo statunitense. Secondo alcune stime, il calo della domanda internazionale dovuto alla fine della guerra avrebbe nuovamente ingrossato le fila dei disoccupati di oltre 7 milioni di persone, ed anche la bilancia dei pagamenti avrebbe subito forti contraccolpi. Il Piano Marshall consentì di risolvere questi problemi, facendo ricadere sugli Stati Uniti il compito di rimettere in sesto il sistema capitalistico mondiale. In conformità ai principi stabiliti dal piano, gli Usa cominciarono ad offrire crediti e a garantire, grazie al controllo esercitato dalle loro imprese, materie prime dai prezzi espressi in dollari. Con i crediti ottenuti, i Paesi europei avrebbero acquistato macchinari e derrate alimentari. Questa semplice strategia coniugava di fatto gli interessi delle società finanziarie, delle multinazionali della energia e delle imprese manifatturiere che ambivano ad effettuare investimenti diretti in Europa. Così, il deflusso di denaro dagli Usa tramite crediti ed investimenti diretti rientrava sotto forma di pagamento dei prodotti fabbricati negli Stati Uniti (macchinari e derrate) o delle proprietà di società Usa (petrolio ed altre multinazionali). A Washington pensarono di aver ottenuto la quadratura del cerchio, in quanto tale sistema non solo consentiva alle multinazionali statunitensi di penetrare efficacemente in nuovi mercati, ma, attraverso l’erogazione di crediti espressi in dollari, permetteva ai Paesi europei di ottenere materie prime e petrolio senza costringerli a ricavarsi nuove colonie. 

Così, il tessuto economico del ‘vecchio continente’ cominciò a ridurre progressivamente lo scarto con quello Usa, sempre più in difficoltà a tenere il passo degli europei. Washington pensò allora di replicare l’esperimento di quasi vent’anni prima, lanciando una campagna militare in Vietnam nella convinzione che il nuovo sforzo bellico, con un’ulteriore pioggia di denaro sulle industrie militari, avrebbe nuovamente funto da stimolo all’economia nazionale. Qualsiasi genere di renitenza a questo riguardo scomparve assieme a John Kennedy, assassinato in circostanze talmente sospette da indurre alcuni inquirenti come il Procuratore Generale di New Orleans Jim Garrison ad ipotizzare l’esistenza di una cospirazione contro il Presidente ordita dall’oligopolio petrolifero, dall’industria militare e dalle alte sfere di esercito e agenzie governative che avevano tutto da perdere dalla politica di disimpegno che Kennedy aveva annunciato.

Il problema è che l’intervento in Vietnam non fece che aggravare le condizioni economico-finanziarie, trasformando gli Usa da polo capitalistico in cerca di mercati di sbocco in Stato parassitario in deficit cronico con il resto del mondo anche perché sprovvisto, a differenza del vecchio Impero Britannico nei due decenni che precedettero il primo conflitto mondiale, di una colonia come l’India in grado di realizzare eccedenze con l’estero sufficienti a ripianare il proprio disavanzo. Gli ormai insostenibili squilibri finanziari – i cosiddetti ‘deficit gemelli’ – indussero il Presidente Richard Nixon a ripudiare, nell’agosto del 1971, gli accordi di Bretton Woods disancorando il dollaro dall’oro e inaugurando l’epoca delle ‘monete fluttuanti’, il cui valore sarebbe stato determinato – come per qualsiasi altra merce – da domanda e offerta sui mercati internazionali. Da quel momento in poi, gli Stati Uniti corrono costantemente il rischio di incappare in una crisi monetaria causata da deflazione da debito estero, per scongiurare il quale sono costretti ad attirare flussi costanti di investimenti esteri al proprio interno. Fondamentale, sotto questo profilo, risulta la centralità del dollaro negli scambi internazionali e il poderoso apparato militare Usa a difendere questa posizione di vantaggio, grazie ai quali Washington riesce ad obbligare il resto del mondo a rifinanziare permanentemente il proprio deficit estero. La capacità di attrarre gli investimenti di cui sono dotati gli Stati Uniti non è quindi dettata soltanto dalla prospettiva dei lauti profitti che assicura agli investitori, ma anche e soprattutto alla capacità di Washington di tutelare gli interessi del capitale proiettando la propria potenza militare su scala globale. Per questa ragione l’economia statunitense è ormai divenuta strettamente dipendente dalla guerra, di cui Washington può servirsi non solo per frenare l’ascesa delle varie potenze regionali che minacciano di intaccare lo strapotere nordamericano, ma anche per assumere il controllo diretto delle fondamentali aree geostrategiche del pianeta. 

È con ogni probabilità in base a considerazioni di questo tenore che nell’aprile 1950, a pochi mesi dalla catastrofica Guerra di Corea, il National Security Council preparò un documento in cui si identificava nel riarmo la chiave di volta per rilanciare l’economia nazionale e rafforzare la leadership Usa, e si suggeriva persino di creare apposite ‘aree di crisi’ per giustificare questa misura. Da allora, il famigerato oligopolio protetto dalla concorrenza straniera meglio noto come “complesso militar-industriale”, preso di mira dal presidente Dwight Eisenhower nel suo discorso di addio del 1961, si è imposto a cuore pulsante della macchina tecnico-produttiva statunitense, attorno alla quale è andata cristallizzandosi un’élite economico-finanziaria e militare portatrice di interessi strettamente connessi alla ‘politica delle cannoniere’ condotta da Washington. Letta sotto quest’ottica, la ‘guerra al terrorismo’ dichiarata da George W. Bush assume un significato molto preciso, così come le innumerevoli campagne militari lanciate da Washington in tutto il globo. 

Lo si evince in maniera lampante leggendo il rapporto di analisi caricato da una potente banca d’investimento come Morgan Stanley sul proprio sito la mattina dell’11 settembre 2001: «che cosa può ridurre drasticamente il deficit delle partite correnti americane, e per questa via eliminare i rischi più significativi per l’economia degli Stati Uniti e per il dollaro? La risposta è un atto di guerra. L’ultima volta in cui gli Usa hanno registrato un surplus delle partite correnti è stato nel 1991, quando il concorso dei Paesi esteri ai costi sostenuti dall’America per la Guerra del Golfo ha contribuito a generare un avanzo di 3,7 milioni di dollari». Le imprese operanti nel settore militare risentono profondamente delle valutazioni sulle possibili degenerazioni in conflitto aperto dei vari focolai di tensione disseminati in giro per il pianeta espresse dalle banche e dai principali analisti finanziari, dal momento che alimentando la percezione del rischio bellico si esorta i governi ad incrementare le spese militari inducendo allo stesso tempo gli investitori a convogliare il proprio denaro verso i listini azionari delle compagnie legate al comparto della difesa. Sotto l’Amministrazione Bush, le spese militari sono passate dai 316 miliardi di dollari nel 2001 ai 329 nel 2002, ai 377 nel 2003 e ai 400 nel 2004 (se si considerano le spese complessive destinate alla difesa, il bilancio sale tuttavia a quota 750 miliardi di dollari nel 2004). La cosa non stupisce, se si pensa a quanti lobbisti del comparto militar-industriale fossero inseriti nei gangli vitali del governo. Da storico membro del consiglio d’amministrazione della compagnia Gulfstream Aerospace, il segretario di Stato Colin Powell era riuscito ad incamerare lauti profitti facendo ottenere all’azienda lucrose commesse per la fornitura di aerei a Kuwait ed Arabia Saudita. Successivamente, il membro del consiglio d’amministrazione Colin Powell e il direttore della società Donald Rumsfeld – segretario alla Difesa sotto l’Amministrazione Bush – hanno visto incrementare notevolmente il valore dei propri pacchetti azionari con l’acquisizione della Gulfstream Aerospace da parte del colosso General Dynamics. La General Dynamics era presente anche tramite il vicesegretario di Stato Richard Armitage, ex membro del consiglio di amministrazione della General Dynamics Electronic Systems, e il segretario della marina militare Gordon England, anch’egli funzionario di rilievo della stessa compagnia. La Lockheed Martin è invece una della contrattiste di punta del Pentagono, sia riguardo alle tecnologie finalizzate alla realizzazione dello “scudo spaziale”, sia per la fornitura dei caccia F-22 e Joint Strike. L’ex amministratore delegato della Lockheed Martin Anthony Principi, venne nominato segretario del Dipartimento per gli Affari dei Veterani. Norman Minetta e Michael Jackson, vicepresidenti della compagnia, assunsero rispettivamente gli incarichi segretario e vicesegretario dei Trasporti. Il funzionario presso il Dipartimento di Stato Otto Reich e il consigliere generale del Dipartimento del Tesoro David Aufhauser sono rispettivamente un ex lobbista ed un ex avvocato della Lockheed Martin. Il segretario dell’Aeronautica James Roche aveva svolto incarichi di grande rilievo presso la Northrup Grumman. Il funzionario della difesa Peter Aldridge era l’ex amministratore delegato di Aerospace Corporation, mentre l’assistente segretaria del Dipartimento per gli Affari dei Veterani Maureen Cragin aveva svolto l’incarico di lobbista della Raytheon, altra contrattista di vertice del Pentagono per le tecnologie inerenti lo “scudo spaziale”. Leo Mackay, ex presidente di un ramo della Bell Helicopters, divenne vicesegretario. Il segretario alla difesa Donald Rumsfeld, il direttore della Cia Frank Carlucci, il segretario alla Giustizia Alberto Gonzales, i funzionari James Baker, Zalmay Khalilzad, Robert Zoellick, Larry Lindsay, George Schultz e tantissimi altri dipendenti minori sono anch’essi personaggi di primo piano del lobbismo militare e petrolifero, entrati nelle fila della politica statunitense dopo aver militato in Union Carbide, Huntsman, Alcoa, ConocoPhillips, Carlyle Group, Kellogg Brown & Root, Bechtel, Enron e numerosissime altre compagnie.

Complessivamente, la spesa militare è raddoppiata nel corso degli otto anni di Amministrazione Bush, mentre durante quella guidata da Barack Obama è aumentata dai 621 miliardi di dollari del 2008 agli oltre 711 del 2011. Al netto dell’inflazione (al valore costante del dollaro 2010), è cresciuta dell’80% dal 2001 al 2011. I primi e maggiori fruitori di ciò sono ovviamente i colossi della difesa. Lockheed Martin, Raytheon, Boeing, Northrop Grumman e General Dynamics hanno registrato nel 2010 un fatturato totale pari a ben 386 miliardi di dollari, a fronte dei 217 miliardi del 2001 (con profitti che sono passati dai 6,7 miliardi di allora ai circa 25 del 2010). Per di più, anche grazie alle guerre di Afghanistan ed Iraq, le aziende operanti nel settore militare hanno avuto modo di aumentare le forniture non solo all’esercito nazionale, ma anche a quelli alleati, dall’Arabia Saudita al Pakistan. Di questo boom di forniture non hanno beneficiato anche altre imprese di dimensioni molto più ridotte rispetto a giganti del calibro di Lockheed Martin. Nel settore dei veicoli militari si è notato che, tra il 2004 e il 2005, i fatturati dell’Am General, dell’Armor Holdings e della Oshkosh Truck sono passati rispettivamente da 690 milioni di dollari a 1,05 miliardi, da 610 milioni a 1,19 miliardi e da 770 a 1,06 miliardi. Nel campo degli elicotteri la L-3 Communications è passata da 5,9 a 8,9 milioni di dollari. Si tratta di un incremento sbalorditivo, se si considera che le crescite in oggetto si sono verificate nell’arco di appena dodici mesi. Nel settore civile non si registrano crescite altrettanto repentine.

La vena interventista dell’Amministrazione Obama è risultata altrettanto funzionale agli interessi del complesso militar-industriale, contribuendo a fare in modo che durante il triennio 2011-2014 il Dow Jones Defense crescesse del 122%, a fronte del 49% capitalizzato dall’indice Dow Jones Industrial. Nell’ottobre 2014, la Raytheon si è aggiudicata un contratto di 251 milioni di dollari per un’ampia fornitura di missili Tomahawk in grado di determinare un rialzo azionistico 4% in meno di un mese, mentre l’indice generale di Borsa perdeva oltre il 2%. Aumenti analoghi o superiori hanno registrato le altre maggiori contrattiste del Pentagono: 4% la Northrop Grumman, 4,5% la General Dynamics. Le azioni della Lockheed Martin, che produce tra l’altro i missili Hellfire sempre più utilizzati dai droni Reaper fabbricati della General Atomics, hanno registrato un aumento record del 9,5%. La stessa Lockheed Martin ha varato la settima nave da combattimento litoraneo (Lcs) che, dotata di alta manovrabilità e capacità di navigare su bassi fondali, è in grado di avvicinarsi alle coste nemiche per lanciare attacchi in profondità. Già nell’aprile 2014, era stata consegnata alla Us Navy la prima delle 10 navi da assalto anfibio della nuova classe America, da cui possono decollare anche i caccia F-35B, prodotti anch’essi dalla Lockheed Martin. Va inoltre rilevato che diverse mansioni svolte in precedenza dall’esercito sono state privatizzate: l’allestimento dei campi, la gestione della loro sicurezza, il vettovagliamento, ecc. Si è arrivati addirittura a investire di funzioni militari le milizie private, i cosiddetti contractor. Tutta un’industria, fino ad allora inesistente, è fiorita e profumatamente remunerata grazie alla privatizzazione di questi settori. 

La Nato alimenta indubbiamente il business del complesso militar-industriale Usa, vincolando i Paesi membri ad adeguare i propri arsenali ai criteri stabiliti dallo statuto dell’Alleanza, i quali impongono come condizione imprescindibile di ammissione l’acquisto degli armamenti statunitensi. Tale risultato scaturisce naturalmente dalla convergenza tra gli interessi della lobby bellica e gli obiettivi perseguiti dai centri strategici statunitensi. Molti dei Paesi che entrano a far parte della Nato sono inoltre costretti, a causa delle magre risorse finanziarie a disposizione, a far ricorso ai crediti statunitensi per coprire le spese necessarie all’acquisto di equipaggiamenti e sistemi d’arma fabbricati dalle industrie nordamericane. Ciò assegna a Washington sia la possibilità di esercitare, attraverso i propri finanziamenti, una forte influenza sulle scelte politiche di queste nazioni, sia di tenere saldamente le redini dell’Alleanza Atlantica. La Nato costituisce inoltre la più imponente macchina da guerra mai esistita. Nel 2011, le spese militari mondiali hanno toccato quota 1.738 miliardi di dollari, di cui ben 1.038 sono stati coperti dai 28 Stati membri della Nato, una cifra grosso modo equivalente al 60% del totale che, integrata con altre voci di carattere militare, arriva a coprire il 75% della spesa militare mondiale. Nel 2012, la spesa militare mondiale, salita a 1.753 miliardi, ha visto ancora gli Stati Uniti offrire il maggior contributo, pari a 682 miliardi di dollari, equivalenti a circa il 40% del totale. Da quel momento si è assistito a una sensibile riduzione, che ha portato Washington a stanziare nel 2015 ‘solo’ 581 miliardi di dollari per il potenziamento del settore militare. Una somma che oltre a mantenere comunque gli Usa – assieme a Gran Bretagna, Estonia e Lettonia – nel novero dei Paesi che investono almeno il 2% del Pil al settore della difesa, risulta più alta rispetto a quella che si ottiene sommando le spese militari dei dieci Stati piazzati subito dietro agli Usa nella graduatoria dei Paesi che spendono maggiormente per il potenziamento del settore bellico e ben quattro volte superiore a quella della Repubblica Popolare Cinese. Se a questa ragguardevole cifra si sommano inoltre le spese di manutenzione dell’arsenale nucleare, contabilizzare nel bilancio del Dipartimento dell’Energia, gli aiuti militari agli alleati strategicamente più importanti (quali ad esempio Israele), i fondi necessari al mantenimento dei soldati in riposo e i finanziamenti a favore del programma nazionale di intelligence si supera abbondantemente la soglia degli 800 miliardi di dollari – alcuni analisti hanno stimato che, nel bilancio federale, un dollaro su quattro sia destinato a sostenere le spese militari.

A prescindere dal risultato, le prossime elezioni presidenziali Usa non sembrano quindi destinate a produrre cambiamenti significativi sul fronte delle spese per la difesa, avendo il ‘complesso militar-industriale’ ormai accumulato un potere tale da porsi al di sopra della politica, grazie ai suoi agganci tra le forze armate e gli apparati di intelligence che costituiscono l’avanguardia dello ‘Stato profondo’ nordamericano. Per quanto ostinato e caparbio, nessun Presidente si è rivelato in grado di tener testa o quantomeno ridimensionare questo potentissimo comitato d’affari in grado di orientare gli indirizzi strategici del governo. La elezioni si rivelano però molto utili a saggiare gli umori generali della popolazione, che nel caso specifico evidenziano una forte delusione nei confronti del sistema. Il sostegno a Donald Trump, che non ha mai ricoperto una carica pubblica in tutta la sua vita, dà la misura della sfiducia dell’elettorato repubblicano nei confronti di candidati che sono una chiara espressione dell’establishment come Marco Rubio e Jeb Bush. Sul fronte democratico, l’appoggio a un candidato che si dichiara ‘socialista’ come Bernie Sanders è altrettanto eloquente sulla delusione generalizzata nei confronti di un candidato ‘di sistema’ come Hillary Clinton. Emerge quindi l’immagine di una società profondamente polarizzata, della cui divisione beneficeranno con ogni probabilità i candidati che intendono mantenere intatto lo status quo, essendo il sistema stesso organizzato in maniera tale da mettere la propria conservazione al riparo da ‘slittamenti’ indesiderati. Gli umori di una società lacerata al proprio interno dall’aumento delle disparità, dall’impoverimento progressivo della classe media e da varie forme di limitazione dei diritti che continuano a colpire soprattutto le minoranze sono infatti molto facili da piegare a specifici fini strumentali quali nuovi interventi militari destinati ad incrementare ulteriormente il business del complesso militar-industriale a discapito delle nazioni più deboli. Non è del resto un caso che, secondo alcune stime formulate nel 2015, gli Usa siano stati in guerra per 22 anni su 239 a partire dal 1776.

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