Come era prevedibile, il voto in Florida, Illinois, Missouri, North Carolina ed Ohio ha confermato i sondaggi della vigilia. Bernie Sanders – che sperava in un buon esito soprattutto in Ohio, Stato industriale dove il suo messaggio protezionistico prometteva di attecchire di più – è stato surclassato da Hillary Clinton, che con i suoi 1.558 delegati a fronte dei 799 del senatore del Vermont sembra aver ormai accumulato un divario difficilmente colmabile.
La rincorsa di Sanders è resa peraltro molto più impervia dagli agganci della Clinton presso l’élite del Partito Democratico, vale a dire i super-delegati. Quello dei super-delegati è un corpo formato da uomini politici e lobbisti che grazie al buon lavoro svolto nel corso della carriera e alle somme di denaro versate nelle casse del Partito beneficiano del potere di appoggiare il candidato che preferiscono alla Convention nazionale anche a costo di contravvenire ai verdetti elettorali. Secondo alcune stime, la categoria del lobbisti è arrivata a rappresentare il 10% circa del totale dei super-delegati del Partito Democratico, e una parte più che preponderante di questi grandi finanziatori ha scelto di sponsorizzare l’ex first lady.
Il ‘Wall Street Journal’ ha rivelato che la Clinton Foundation, holding di famiglia che funge da collettore di finanziamenti dall’estero, ha raccolto enormi somme di denaro dal Dipartimento degli Affari Esteri canadese, fortemente interessato alla costruzione dell’oleodotto Keystone Xl sabotato dall’Amministrazione Obama; dall’Ucraina, dove un nugolo di oligarchi tra cui spicca il ‘re dei media’ Viktor Pinčuk sta raccogliendo i frutti del colpo di Stato di ‘Euro-Majdan’ preparato dagli Usa con l’appoggio determinante della Clinton e di George Soros; dall’Arabia Saudita, irritata per l’accordo sul nucleare iraniano patrocinato da Washington. Questi flussi di denaro rischiano però di creare seri problemi alla Clinton, visto che, secondo quanto rivelato dai servizi francesi, la mail inviata il 16 febbraio 2013 dall’allora segretario di Stato al suo braccio destro Sidney Blumenthal contenesse prove del coinvolgimento diretto di finanziatori sauditi di alto rango nell’establishment di Riad nell’attacco jihadista al consolato Usa di Bengasi dell’11 settembre 2012. Il contenuto della mail, che attualmente sembra essere sparito, era stato sottratto e inviato all’emittente ‘Russia Today’ dall’hacker romeno noto come ‘Guccifer’, estradato di recente negli Stati Uniti. Nel caso in cui ‘Guccifer’ decidesse di collaborare con le autorità, le cose potrebbero mettersi molto male per la Clinton, già scampata ad un’incriminazione grazie al rifiuto di Brian Pagliano, informatico che aveva messo illegalmente in piedi il sistema che consentiva all’ex first lady di ricevere mail segrete su un indirizzo privato alternativo a quello fornitole dal Dipartimento di Stato, di spiegare la dinamica dei fatti a una commissione del Congresso riunitasi per far luce sull’accaduto. La questione potrebbe avere serie ripercussioni sulla corsa della Clinton alla Casa Bianca.
Sul fronte opposto della barricata, si registra l’inarrestabile avanzata di Donald Trump verso la nomination repubblicana. Che si stesse entrando nella fase cruciale era stato sottolineato da tutti i più autorevoli addetti ai lavori, e suggerito dalle clamorose bagarre scoppiate a Dayton e Cleveland, in Ohio, e a Chicago, in Illinois, dove alcuni gruppi di contestatori filo-democratici si erano recati con l’intento di sabotare i comizi che Trump si apprestava a tenere. L’episodio più rilevante si è verificato a Chicago, quando un contestatore afroamericano venne allontanato dalla polizia dopo aver ricevuto un pugno in faccia da un sostenitore di Trump. Benché l’accaduto, ripreso dalle telecamere e mandato in onda da tutti i principali canali informativi, sembrasse prestarsi perfettamente alla campagna mediatica costruita negli ultimi mesi contro il magnate newyorkese, le cose sono andate in maniera ben differente.
Dalle indagini condotte alcune ore dopo è infatti emerso che l’aggressore era in realtà Ilya Sheyman, ex candidato dell’Illinois al Congresso tra le fila dei democratici che attualmente svolge l’incarico di direttore esecutivo di MoveOn.org, movimento per i diritti civili che annovera George Soros tra i maggiori finanziatori. Il che ha quasi sicuramente concorso a rovesciare l’effetto che i contestatori speravano di ottenere, rafforzando di fatto la posizione di Trump. Il sondaggio più accreditato della scorsa settimana dava infatti Trump per vincitore con ampio margine sia in Florida (43% contro 22% di Marco Rubio, di Miami) che in Illinois (34% contro 25% di Ted Cruz). Solo in Ohio, Trump sarebbe stato costretto a cedere al governatore locale John Kasich (33% contro 39%). Con il 49,6% in Florida (99 delegati), il 40,3% in North Carolina (29 delegati), il 38,9% in Illinois (24 delegati) e il 36,1% in Ohio, Trump ha capitalizzato risultati migliori di quelli pronosticati alla vigilia, assicurandosi per il momento 612 delegati su un minimo di 1.328 e costringendo il senatore Marco Rubio di Miami a ritirarsi dalla corsa dopo la bruciate sconfitta casalinga.
Il successo di Trump affonda le radici nella sua retorica accattivante ed aggressiva diretta contro una realtà politico-economica caratterizzata dalla rarefazione della middle-class, tradizionale spina dorsale dell’economia Usa, come effetto diretto della concentrazione della ricchezza nelle mani di un nucleo sempre più ristretto di individui – la cosiddetta super-class. Il magnate newyorkese ha buon gioco nel far leva sul malcontento popolare dovuto a questo radicale processo di polarizzazione sociale per infuocare le folle che accorrono in massa ad ascoltare i suoi comizi. I suoi attacchi contro la ‘democrazia oligarchica’ imperniata sui grandi finanziatori (ci cui l’apparato a sostegno di Hillary Clinton è la massima espressione), contro l’abolizione dei regolamenti atti a disciplinare il commercio e il movimento dei capitali, contro l’importazione massiccia di manodopera sottopagata e contro le sempre più insostenibili agevolazioni fiscali di cui godono le grandi imprese riflettono una realtà di cui moltissimi cittadini statunitensi sperimento gli effetti. Come sottolinea l’autorevole settimanale tedesco ‘Die Zeit’, la popolazione Usa ha avuto modo di accorgersi che la deregulation e l’abbattimento delle aliquote fiscali sugli alti redditi non hanno prodotto quel trickle-down (‘effetto-sgocciolamento’) cui Ronald Reagan faceva continuamente riferimento per giustificare le sue manovre politiche. Hanno determinato, di converso, l’effetto trickle-up, vale a dire un processo di trasferimento di ricchezza verso l’alto di proporzioni mai viste da oltre 100 anni. I dati confermano infatti che attualmente lo 0,1% della popolazione controlla il 22% della ricchezza, a fronte del 9% che deteneva nei primi anni ’80. L’’1% più ricco possiede oggi circa la metà del Pil statunitense. Negli anni che hanno immediatamente preceduto la crisi, il processo di concentrazione della ricchezza ha subito una forte accelerazione (+118% per il decile più abbiente; -18% per il decile più povero). Questi dati danno la misura del livello di deterioramento raggiunto dalla logora e oramai irrealistica narrativa del ‘sogno americano’, che Trump promette di riportare in auge nell’arco di pochi anni fedelmente al suo slogan ‘rifacciamo grande l’America’.
Quella che, specialmente in Europa, suona come una promessa impossibile da mantenere, negli Stati Uniti rappresenta una prospettiva in grado di scaldare i cuori dell’elettorato, cui il magnate di New York ha saputo dar lustro. Al contrario dei suoi concorrenti repubblicani, impegnati nella ricerca di grandi finanziatori al punto da porre le necessità degli elettori in secondo piano. La massima manifestazione di ciò si è avuta con Jeb Bush, membro dall’establishment con notevoli agganci presso le agenzie del governo (Cia in primis) che solo un anno fa era considerato quasi unanimemente il candidato in pectore del Partito Repubblicano. Nonostante il fiume di denaro garantitogli dai suoi sponsor, Bush è stato recentemente costretto a recarsi col cappello in mano al cospetto dei suoi finanziatori – facenti parte soprattutto dell’industria petrolifera cui era stata promessa un’ulteriore deregolamentazione del settore – per annunciare il proprio ritiro dalla corsa. «Il ritiro di Bush segna l’inceppamento – quantomeno momentaneo – di un meccanismo politico che ha marciato per decenni: le donazioni vincevano le elezioni e le vittorie partorivano leggi compiacenti verso i donatori. Soprattutto i repubblicani si proponevano come partito del mondo delle imprese. I grandi capitalisti sceglievano i propri candidati nel corso di incontri riservati e le elezioni diventavano una specie di corsa agli armamenti. Nel 2004 i candidati avevano speso circa 700 milioni di dollari per le loro campagne, nel 2012 si è passati a 2,6 miliardi», scrive ‘Die Zeit’.
David Frum, il ghostwriter dei discorsi di George W. Bush, ha approfondito il discorso accendendo i riflettori sulla crescente discrepanza tra aspettative dei grandi finanziatori e interessi della base elettorale. Vicende molto significative come la bagarre sul fiscal cliff, che aveva visto i repubblicani spingere il Paese sull’orlo della bancarotta pur di non alzare le tasse sulle rendite finanziarie e sui grandi patrimoni, o il lassismo su immigrazione e concessione della cittadinanza per assecondare le fame di manodopera sottopagata delle imprese, hanno indotto l’abile spin doctor a concludere che «la maggior parte dei repubblicani si preoccupa del potere eccessivo esercitato dai ricchi. Ma i loro dirigenti contribuiscono ad ingigantirlo ulteriormente». Una parte importante dell’elettorato repubblicano ha però cominciato ad opporsi a questo sistema perverso, dopo aver preso atto degli effetti sui salari e sulla delocalizzazione dei posti di lavoro prodotti dagli accordi di libero scambio come il Nafta.
La campagna elettorale di Trump si concentra proprio sui bisogni dei cittadini statunitensi che hanno perso il posto di lavoro o che per conservarlo si vedono costretti ad accettare la concorrenza al ribasso sui salari esercitata dagli immigrati sotto retribuiti. Le sue proposte più significative, quali l’imposizione di pesantissimi dazi in entrata sui prodotti fabbricati all’estero per favorire il rimpatrio di posti di lavoro, l’adozione di un approccio più costruttivo con la Russia di Putin - considerata un irrinunciabile fattore di stabilità – e il sanzionamento della Cina, accusata – in maniera peraltro infondata in questi ultimi anni – di deprimere artificiosamente il corso dello yuan per favorire il proprio export, vanno a integrarsi con quelle più marcatamente demagogiche e autoritarie quali il divieto di ingresso ai musulmani, la costruzione del muro lungo il confine con il Messico – iniziata tuttavia in sordina nel 1994 per volere Bill Clinton e confermata nel 2006 con il Secure Fence Act – e la legalizzazione della tortura. Ne scaturisce un programma a suo modo coerente e in grado di esercitare un certo fascino sull’elettorato non solo democratico.
Il timore del potente apparato elettorale della Clinton è infatti che gli elettori che avevano sostenuto Sanders possano essere indotti ad appoggiare Donald Trump nell’eventualità di un’uscita di scena del Senatore del Vermont. Le posizioni assunte dal tycoon newyorkese sugli accordi di libero scambio patrocinati dall’amministrazione Obama, che rischiano di radicalizzare la tendenza alla delocalizzazione degli impianti produttivi e a comprimere ulteriormente i salari, presentano infatti diversi punti di contatto con quelle sponsorizzate da Sanders, che risultano a loro volta diametralmente opposte a quelle promosse dall’ex first lady. Questa inversione radicale dell’elettorato può risultare dirompente se si considerano le tendenze relative alla partecipazione di voto, che vedono gli elettori repubblicani in forte ascesa e quelli democratici in caduta libera. È inoltre interessante notare che pochi mesi fa due sorelle afroamericane attive sostenitrici di Trump residenti in North Carolina hanno creato un sito internet finalizzato a favorire il passaggio degli elettori democratici al campo repubblicano. Il sito ha inaspettatamente beneficiato dell’appoggio più o meno voluto del ‘New York Times’, che dedicandovi un intero articolo ha contribuito diffondere il messaggio delle due sorelle e, forse, a incrementare la popolarità della loro causa.
L’aspetto più paradossale di tutta questa vicenda già di per sé decisamente peculiare consiste proprio nel fatto che Trump è stato in grado di imporsi come principale candidato repubblicano dopo essersi scagliato contro l’establishment del Grand Old Party – che ha cercato ripetutamente di sabotare la sua corsa alla nomination arrivando a concentrare i milioni di Wall Street sull’ormai sconfitto John Kasich – e potrebbe finire per conquistare la Casa Bianca grazie all’appoggio di elettori democratici delusi. Tanto il Partito Repubblicano quanto il Partito Democratico rischiano di pagare a carissimo prezzo il loro approccio élitario poco attento – per usare un eufemismo – alle necessità della base.
È quindi proprio il caso di dire che se Atene piange, Sparta non ride.


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